Entrevista a Marta Rinaldi (Barolo)

Vinho ao Vivo 2018, Festival Europeu do Terroir, 13 e 14 de Julho

Entrevistas realizadas por Nadir Bensmail d’Os Goliardos

1. L’isola del Barolo

“E il naufragar m’è dolce in questo mare”, se poi ritrovo la mia Isola del Barolo! Le Langhe abituano ad una bellezza che è anche legata alle stagioni: qui si sentono nette, sono sempre fatte di diversi colori, e per le diverse pendenze ed esposizioni il paesaggio di collina non è mai monotono. A volte vorrei questa Isola più calma e riflessiva, meno presa d’assalto dal turismo e più rivolta agli aspetti rurali. Vedo questo forte contrasto, oggi, tra la storia contadina e povera di questi luoghi, e il rapido successo degli ultimi decenni che, a quanto vedo, ha fatto un po perdere di vista i valori sedimentati in queste marne. Avere i piedi ben piantati nell’Isola del Barolo richiede di sviluppare una curiosità verso il resto del mondo-vino, togliendosi di dosso gli abiti Nebbioleschi: le produzioni di Langa lasciano impronte e tracciano sentieri nell’approccio al vino in genere. Guardo poi al Barolo come un grande veicolo e collante tra persone, un accompagnamento alle sfere che non solo riguardano la tavola e la gastronomia, ma questo vino che ha in sé una nobiltà identitaria e storica, adorna e contorna relazioni umane, musica, cultura, arte.

2. Creare nella tradizione

E’ vero, la tradizione dei vini di Langa non sembra lasciare troppa “mano libera” o fantasia. Anche il Nebbiolo, dalla sua parte, per tanti aspetti non è una varietà semplice da allevare, e ugualmente nella vinificazione va cudito con attenzione. Lavorare nel “porto sicuro” della tradizione non è mai stato un limite per me, al contrario significa tendere la mano al vitigno e all’annata in modo virtuoso, misurandosi per valorizzarne l’identità. Vinificare il Nebbiolo “come un tempo” è tutt’altro che scontato o semplice, soprattutto se il punto di arrivo deve rispondere a un disciplinare molto preciso DOC/DOCG: da un canto ci si da la regola di non prestare troppo il fianco alla tecnica enologica per incentivare o accelerare processi spontanei, ma d’altro canto non significa buttare alle ortiche la scienza enologica, chimica e biologica, che comunque supportano e giustificano empirismi e consuetudini “così come facevano i nonni”. Il Nebbiolo è un vino che ha bisogno di molto tempo già in cantina per farsi, è soggetto a fasi e alternanze durante le sue lunghe macerazioni e maturazione in legno, ma l’attesa è ripagata dall’armonia raffinata a cui arriva. Non credo che nella tradizione non ci possa essere uno sviluppo, a livello agronomico non c’è mai un ordine fisso da un’annata all’altra e anche nelle Langhe purtroppo sta cambiando la pressione dele malattie della vite, è arrivata la flavescenza dorata tra le nuove cause gravi di mortalità dei ceppi di Dolcetto e Barbera. Il mal dell’esca, come in tante regioni europee, sta colpendo la Barbera e anche il Nebbiolo, per questo gli occhi devo essere ben aperti a tentativi e soluzioni per non perdere ulteriore diversità varietale. Troppo facile, dico, espiantare Dolcetto, Barbera e Freisa a favore del Nebbiolo più remunerativo e per certi versi meno sensibile a malattie.  I tradizionalisti sono spesso stati dei “resistenti”, hanno a volte posizioni controcorrente; penso agli anni in cui molti produttori hanno voltato le spalle al Barolo e Barbaresco “classico”, mettendo in opera vinificazioni più pilotate (lieviti, addizione di tannini liquidi, enzimi, rotomaceratori, maturazione in legno piccolo). I tradizionalisti sono stati per molto tempo fuori dal coro, e anche insistere nella conservazione di alcune varietà “minori” dal punto di vista del mercato, ha in sé aspetti di evoluzione piuttosto che di immobilismo. Penso per esempio a chi ha protetto il Dolcetto o la Freisa di fronte all’avanzata dei nuovi impianti di Nebbiolo; coltivare Ruchè a Barolo ha in sé una nota creativa.  C’è poi un altro aspetto che riguarda le aziende piccole e familiari: seppur qui la tradizione “del fare in una certa maniera” sia seria e radicata, laddove c’è uno spirito creativo di prova o ricerca, questo ha un campo più raccolto in cui attuarsi rapidamente, e in modo efficace ed esteso. Penso alla conversione alla potatura Guyot-Poussard che abbiamo fatto in azienda in modo risoluto, abbandonando completamente la mentalità di potatura della zona.

3. La vita corsara

I colleghi di Langa, salvo alcune eccezioni, hanno una visione del vino che ai miei occhi ha limiti e poche angolature. Stando seduti sugli apici del Barolo e del Barbaresco , è quasi scontato posare sempre l’attenzione sui grandi vini di Francia, preferibilmente i Pinot Neri di Borgogna o qualche etichetta blasonata di Bordeaux e poi fiumi di Champagne stellati. Bisogna essere coraggiosi e prevedere di prendersi qualche manata, se si portano vini naturali dal mondo sulle tavole langhette. I crismi della degustazione classica sono lame taglienti su alcune bottiglie che, invece, ho imparato ad amare facendo anche un passo oltre il bicchiere.

Facendo un rimando alle domande precedenti, vita corsara sull’Isola del Barolo significa emanciparsi un po dal Barolo, soprattutto in questi tempi in cui vedo svilupparsi una mentalità mercantile che stride con la nostra identità. Vita corsara significa anche non dover vivere di solo vino, ma comprenderlo in una progettualità più ampia che per me si traduce nell’impegno sociale e culturale, veicolato dall’Associazione Giulia Falletti di Barolo.  Vita corsara è poi avere la fortuna di sentirsi “a casa propria nel mondo”, ovunque ci sia una mano aperta e tesa al mestiere del vignaiolo e alla gioia del bere e gustare.

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